La 2ªC2 alla scoperta di un pezzo di grecità tra Cuma e Pozzuoli
Il giorno 10 maggio la 2ªC2 del Telesi@ ha svolto una lezione sul campo nella zona flegrea: scopo quello di studiare gli aspetti e la storia di due importanti siti archeologici del mondo greco e romano presenti sul territorio campano: le città di Puteoli e Cuma.
Dopo aver svolto delle lezioni propedeutiche incentrate sulle discipline classiche e su quelle di interesse religioso, accompagnati dai nostri docenti e sotto la guida spirituale di Serapide e San Gennaro, ci siamo recati dapprima presso la città di Pozzuoli, visitando due importanti monumenti archeologici legati al periodo della dominazione romana: l’Anfiteatro Flavio e il Macellum di Serapide.
1. Anfiteatro Flavio
L’Anfiteatro Flavio era il luogo più importante dell’antica città di Puteoli (odierna Pozzuoli in provincia di Napoli) dove si tenevano sia i giochi dei gladiatori, sia le esecuzioni capitali, sia le cacce e altri generi di spettacoli che a quel tempo erano molto in voga.
Abbiamo scoperto, però, che il termine “Flavio” legato al monumento è improprio poiché, attraverso studi di eminenti archeologi, si è verificato che la sua realizzazione risale all’epoca di Nerone, mentre l’attribuzione alla dinastia Flavia (70-96 d.C.) è nata in seguito al ritrovamento di una stele di marmo contenente un’iscrizione mutila, di lettura poco chiara, che alluderebbe o alla costruzione o alla ristrutturazione dell’anfiteatro a spese della cittadinanza, fatto questo che risale proprio a tale periodo compreso tra l’impero di Vespasiano e dei suoi figli Tito e Domiziano.
Il fatto che l’anfiteatro sia di realizzazione neroniana non deve stupire poiché è ampiamente noto che l’imperatore Nerone, oltre ad intendersi di matricidi e uxoricidi, fosse soprattutto un amante del teatro e degli spettacoli a tal punto da sovvenzionare o patrocinare la fondazione di teatri e anfiteatri, presso i quali, in particolare a Napoli e a Pozzuoli, amava rappresentare i suoi poemi ed esibirsi dinanzi alla folla dei suoi sudditi-fans. Attualmente dell’anfiteatro di Nerone possediamo soltanto l’ima cavea che doveva essere circondata all’esterno da un colonnato intonacato destinato alle passeggiate che purtroppo è andato perduto a seguito delle non poche spoliazioni e riutilizzi che l’edificio ha subito a partire dal periodo medievale.
Tuttavia il pregio dell’Anfiteatro di Pozzuoli risiede nel fatto che, a differenza degli altri due grandi anfiteatri sopravvissuti su territorio italiano (il Colosseo e l’Arena di Verona), si è conservata in buono stato tutta la struttura dei sotterranei, nei quali compaiono sia gli spogliatoi dei gladiatori, sia i depositi delle armi, sia le gabbie degli animali che ambienti più ampi destinati a conviti e cene durante i quali venivano anticipate le competizioni gladiatorie dei giorni successivi. Noi della 2C2 abbiamo intrepidamente visitato tali luoghi e li abbiamo esplorati attraversando le numerose strutture ad arco e sbirciando negli anfratti ombrosi e bui dove, duemila anni fa, i gladiatori del tempo si preparavano ad intrattenere la folla delirante degli spettatori. Profonda è la suggestione che tale posto esercita sulla fantasia di chi lo visita e lo scopre in tutto il suo monumentale fascino!
2. Il Serapeion
Proseguendo lungo le vie assolate di Pozzuoli siamo giunti presso il sito che accoglie il celebre Macellum ossia il mercato alimentare dell’antica Puteoli. L’antica Pozzuoli era, sin dall’età ellenistica, l’anticamera mediterranea di Roma. Come è noto Roma è una città fluviale e come tale non ebbe mai nell’antichità un vero e proprio porto; pertanto Pozzuoli costituiva lo scalo di tutte le merci che provenivano dal Mediterraneo: spezie, schiavi, grano, oggetti di lusso, ma anche idee, culti e conoscenze che si concentravano e si diffondevano a partire da una città che gli imperatori e i ricchi romani non esitarono ad abbellire e a fornire di ogni lusso e bellezza. Oltre ai due anfiteatri, Puteoli ebbe anche una sorta di mega-store adibito alla compravendita di merci: il Macellum era infatti una imponente struttura dotata di tholos, di fontane, negozi e di una monumentale facciata costruita a mo’ di tempio con piccole cappelle dedicate a divinità protettrici, tra le quali fu collocata la statua del dio egizio Serapide, una sorta di versione orientalizzata del grande Zeus venerato da greci e da romani. Come mai, ci siamo chiesti, un dio egizio veniva venerato in una città romana dedita ai commerci, agli svaghi e all’esercizio del potere? La risposta l’abbiamo appresa studiando e consultando alcune guide che ci hanno segretamente informato che l’antica Pozzuoli ospitava già a partire dal I sec. d.C. numerose comunità multietniche di mercanti provenienti dall’Egitto, ma anche dalla Siria e dal mondo giudaico. Come le nostre attuali metropoli, così anche Pozzuoli ospitava stranieri che vi introducevano, oltre alle loro mercanzie, anche i loro culti e le loro tradizioni e Nerone, che amavaparticolarmente il costume di vita ellenistico e orientale, favorì addirittura il costituirsi a Pozzuoli come anche a Napoli di veri e propri quartieri abitati da immigrati orientali tra i quali c’era una nutrita comunità di alessandrini che diffusero i culti di Iside ed Osiride, di Horus ed Arpocrate e del grande Serapide-Ammon, nonché del dio Nilo. Il Macellum restò sepolto per secoli fino al secolo XVIII quando il re Carlo III di Borbone, che aveva il pallino dell’archeologia, ordinò di scavare alla base di tre grandi colonne antiche che spuntavano misteriosamente dal suolo, intuendo che esse stessero celando chissà da quanto tempo qualcosa di arcano e di antico e riportando alla luce l’intero ambiente di quello che in seguito si rivelò essere il Macellum di Pozzuoli e non un semplice “tempio”!
Osservando le grandi colonne che dovevano sostenere la facciata perduta dell’edificio abbiamo notato dei fori sospetti e all’improvviso si è levato dal fondo uno strano gracidio di rane! Che significa tutto ciò? Anche stavolta la risposta ci è giunta dalle nostre “fonti” segrete che rivelano dell’esistenza in passato di un singolare fenomeno naturale che non è né un terremoto né un’eruzione ma qualcosa di più strano: il bradisismo ossia un terremoto lento e sussultorio che ha portato addirittura all’aumento del livello dell’acqua marina tanto da far proliferare sulla superficie delle colonne sommerse dei molluschi chiamati litodomi che vi hanno scavato le loro tane bucherellando il prezioso marmo e se la sono cavata senza ricevere alcuna denuncia! Le rane hanno ben pensato di occupare la parte bassa del Macellum: attualmente non pagano nemmeno l’affitto ma assordano i poveri turisti con i loro versi striduli, oppure, come sospettiamo noi, tentano di ridestare il povero Serapide che è stato ingiustamente rimosso dalla sua cappella? Il mistero è ancora fitto ma noi lo abbiamo lasciato in sospeso perché attratti da uno ancora più seducente: quello della Sibilla che ci attendeva sull’acropoli di Cuma!
3. Cuma e la Sibilla: verità o mito?
E se quelle fastidiose ranocchie stessero tentando di dirci altro? Ci siamo chiesti mentre alle tre del pomeriggio sotto un sole di trenta gradi salivamo a piedi la strada che conduce all’acropoli cumana. Se le rane volessero dirci che non sono delle semplici rane ma gli spiriti reincarnati degli antichi Eubei che circa 2.800 anni fa giunsero sulle coste campane per fondare una nuova città sotto la guida di due signori chiamati Ippolce e Megastene che litigarono pure sul nome da dare alla nuova colonia? Intanto Cuma ci ha accolto con i suoi alberi, con la sua vista mozzafiato sul mare da dove è possibile avvistare Pitecusa, l’isola delle scimmie, e la bellissima ed incantevole isola di Arturo: Procida! In basso abbiamo i resti della città vera e propria, con il foro e le terme, che fu subito al centro di numerosi contrasti e guerre ingaggiate da Etruschi, Siracusani e Sanniti fino ad arrivare ai bizantini e agli arabi nel X secolo d.C. Anche Cuma come la più giovane Puteoli ebbe una vocazione commerciale tanto che un tiranno un po’ eccentrico chiamato Aristodemo decise di abbellirla e di renderla più estesa e ricca costruendovi un tempio dedicato ad Apollo e un altro dedicato prima ad Artemide e poi a Zeus (Giove). Ma Aristodemo fu ucciso e non ebbe il tempo di continuare con la sua opera di ampliamento anche perché la città cadde sotto l’influenza di altri popoli fino a diventare una colonia romana. Proprio ai tempi di Roma un giovane poeta lombardo che amava però tanto il Sud decise di venire nella bella Napoli a studiare filosofia e, passeggiando tra gli edifici di Cuma, trasse l’ispirazione per il canto sesto di un poema che avrebbe di lì a poco conquistato una fama eterna: l’Eneide. Virgilio sapeva che a Cuma esisteva una conventicola di donne attempate e anche un po’ strane perché ogni tanto cadevano in delirio vaticinando a nome di Apollo strani ed enigmatici messaggi: erano le Sibille, ossia, come suonava nell’antico dialetto euboico, le “voci di dio” tra le quali c’era una tale Deifobe che si offrì di accompagnare il profugo troiano in un grand-tour nell’aldilà alla ricerca dello spirito del padre dal quale avrebbe ricevuto la profezia sulla fondazione e il futuro di Roma. Virgilio, per quanto morto da più di duemila anni, è onnipresente a Cuma con le numerose iscrizioni marmoree che riportano versi del sesto libro dell’Eneide che noi abbiamo tentato di tradurre dal latino chiedendo scusa al povero Virgilio per i nostri errori! Ben presto ci siamo addentrati nel dromos scavato nel tufo con il cuore in gola, temendo che Deifobe comparisse da qualche anfratto segreto e invece abbiamo scoperto che quello non è il “vero” antro della Sibilla, bensì un cunicolo militare usato dagli antichi cumani in caso di attacco da parte di invasori, cunicolo che poi i Romani hanno provveduto ad ampliare e a dotare di curiosi solai, tutta roba che ha infranto l’atmosfera di mistero che ci aveva accolto. Ma allora dov’è il vero antro? Abbiamo cominciato a cercarlo, ad indagare, a formulare strane e disparate ipotesi, lo abbiamo chiesto agli alberi muti che circondano Cuma, lo abbiamo chiesto allo spirito di Virgilio che, essendo stato offeso dal nostro latino, non ci ha risposto, lo abbiamo chiesto agli uccelli superstiti che, dopo secoli, sono tornati a volare sulla superficie del lago di
Averno.
Il lago però li ha minacciati di tornare a sterminarli con i suoi effluvi mefitici nel caso in cui ce lo avessero detto. Siamo dunque ritornati a Telese con un mistero inevaso, poi ad un tratto ci è sovvenuto un ultimo, inquietante dubbio: vuoi vedere che le rane del Serapeion stavano tentando di dirlo a noi come ad ogni turista che si affaccia ogni giorno ad ammirare le rovine e, nella nostra presunzione, non le abbiamo volute ascoltare?