di Stefy Ana Guerra –
Il 21 Marzo 2017, presso la biblioteca dell’Istituto di Scienze Applicate, ha avuto luogo l’incontro con la prof.ssa Carolina Maestro, alla cui esperienza d’insegnamento nella Casa Circondariale di Ariano Irpino, ha conseguito la stesura del libro “La bic nera”.
L’autrice ha permesso ai docenti e agli alunni partecipanti riflessioni circa il ruolo sociale ed individuale del carcere, rendendo in tal modo discutibile l’inclinazione comune alla stereotipizzazione delle sue funzionalità e riproponendo la detenzione come periodo di rieducazione dell’uomo e non d’isolamento rispetto alla collettività. Il carcere dimostra la vacuità dell’esercizio razionale che ciascuno adotta nel tentativo di dissomigliare dalla natura reale della propria individualità, imponendo la destrutturazione dell’identità e dei principi cardine del sistema di valori elaborato; tuttavia, la modificazione dell’etica in sé ideata e l’interruzione del ruolo sociale dapprima occupato, potrebbero generare uno stato di disagio che induce il soggetto alla pratica di atteggiamenti deletori come l’autolesionismo e il suicidio.
Ne “La bic nera”, Carolina Maestro disamina le convenzioni attraverso le quali la società ininterrottamente evidenzia il confine che diseguaglia ciò che è giusto e sbagliato essere.
La coscienza comune ha infatti elaborato la costruzione di classi etiche idealmente opposte, di stereotipi che incessanti si trasmettono al fine di un apparente processo salvifico. L’anno di insegnamento in carcere, le ha permesso di oltrepassare il cancello che quotidianamente affievoliva la separazione tra l’esterno e l’interno di un mondo in sé edificato; di vivere intimamente l’odore, il rumore, il silenzio, la complessità del luogo “in cui il pallone non doveva finire”.
L’autrice delinea l’impertubabilità con la quale ciascuno assiste alla colpevolezza di un genere umano predeterminato e del quale ne osserva i meccanismi da un punto di vista strettamente esterno, in quanto non incline ad atteggiamenti distanti dall’inconsapevole precarietà dei comportamenti razionali che in lui si muovono.
Carolina Maestro, tuttavia, descrive la costruzione di ciascuna personalità in relazione al contesto più o meno educativo con cui essa irrazionalmente protende ad eguagliarsi, generando in tal modo persone diseguali perché maturate altrettanto differentemente e non in quanto nate prematuramente buone o cattive. Prosegue la riflessione circa l’abisso proprio dell’essere, le ombre che pervadono le anime più innocue, la fragilità con la quale l’individuo accoglie avvenimenti destabilizzanti sino a rendere propri atteggiamenti e meccanismi dapprima creduti estranei, perché vittima di imprevedibilità ed inganni particolarmente complessi qualora derivanti da se stessi.
“Vincenti, forti, potenti e irraggiungibili. È così che si sentono, è così che si sono sentiti ed è così che, da qualche parte, vogliono continuare a sentirsi. Il carcere li scaraventa lontano, ogni minuto; li insulta mentre è quello che hanno sempre voluto evitare: sentirsi offesi da qualcuno. Li offende il caldo, il freddo, gli spazi stretti, l’affollamento, una febbre, l’odore di ferro, il ciglio delle brande, i mozziconi durante il passeggio, i colloqui mancati con quel parente che stavano aspettando e che poi non viene, forse è morto, non c’è.” L’autrice in tal modo definisce la collisione di due stati intrisi nell’individualità di ciascun carcerato innanzitutto uomo, designando persone prigioniere del tempo, della costante individuale che interrompe la percezione di sé in relazione al mondo, dal quale appare tuttavia ancora subordinato nel silenzio promiscuo ed assordante del ricordo.
Il carcere materializza l’ideale, dapprima astratto, dell’oppressione dell’anima conseguente alla mancata libertà; all’istinto connaturale dell’uomo di assistere ai processi che definiscono la propria interiorità in uno spazio individuale a sé stante. Denuda uomini addietro complici del vuoto insito nel vortice dell’autodistruzione, delle mancate ragioni per cui osservare vite che, inesorabili, procedono senza sosta per proprio conto, dimenticatesi di loro, o forse loro, dimenticatesi della vita.
“Il mondo dei sepolti vivi”, tuttavia, è anche il luogo in cui gli uomini fanno della scrittura un evidente esercizio dell’anima e nella quale scoprono la chiave d’accesso alla parte più recondita, inascoltata e pura dell’io. Le parole divengono, in tal modo, lo strumento della rinascita personale e collettiva, lo scenario nel quale alle sofferenze convergono ora riflessioni circa gli affetti; vengono delineati padri, madri, figli che qualcuno desidera incontrare nei sogni, quelli veri e profondi di chi quegli occhi non li ha mai incontrati.
“Alle prime percezioni proverai un malessere che ti soffocherà e vorrai scappare via urlando, ma una volta che ti riuscirà di attraversare questa linea di confine cosmico, di spaventoso contrasto, inizierai a contemplare il tuo io, permettendoti di aprire la porta ed entrare nell’immensità nel silenzio, indossando l’armatura che ti inabisserà nelle profondità più oscure di te stesso e riuscirai ad amare te stesso, il silenzio e la libertà”.
Con queste parole, Antonio, scrive dell’oscurità più complessa e profonda: quella interiore; dell’inevitabile silenzio con il quale si confronta chi è intenzionato a vivere.
Sono Uomini, poi detenuti. Innanzitutto Uomini.
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