di Giulia De Fortuna 4ªS1 –
Oggi viviamo in una società complessa, caratterizzata da profondi mutamenti socio-economici e politici, dal rapido cambiamento di valori di riferimento e da eterogenei e contraddittori modelli culturali che ci disorientano e ci rendono più fragili. In questo quadro di riferimento il processo di ricerca e di acquisizione dell’identità personale diviene per noi giovani assai problematico. La scuola, come comunità educante, ha il compito di individuare azioni strategiche idonee a trasformare le condizioni di malessere diffuso e a promuovere negli studenti condizioni di agio, di benessere psico-fisico e socio-affettivo-relazionale. Il disagio non è una condizione dell’essere adolescenti e nemmeno uno stato d’animo, ma “un grido che denuncia, da parte dei giovani, il bisogno della giusta distanza nelle relazioni con gli adulti, e che chiede di ri-visitare la nostra capacità di porci gli uni vicini agli altri” (Don Luigi Ciotti).
Il modello di insegnamento frontale, che centralizza la figura del docente, offrendo a tutti gli alunni lo stesso tipo di stimoli, è chiaramente inefficace per coinvolgere adeguatamente ogni studente nella lezione e vita di classe; sono necessarie piuttosto metodologie didattiche ed educative inclusive che favoriscano le competenze individuali, valorizzando le risorse e le differenze di ciascuno e facendo accrescere l’autostima di ognuno . Sono necessari “spazi” diversi che, pur facendo i conti con la ristrettezza di risorse economiche, si configurino come risposte possibili.
Una di queste risposte è il Circle time: un metodo di lavoro ideato per facilitare la comunicazione e la conoscenza reciproca nei gruppi. Esso rappresenta una delle modalità più efficaci per favorire il coinvolgimento di tutti coloro che vi partecipano, poiché, come suggerisce il nome, fa sì che il gruppo si posizioni in cerchio, in modo che ciascuno possa vedere ed essere visto da tutti, (con l’intento di favorire un clima di maggiore serenità) e che ognuno, a turno, abbia la possibilità di intervenire sulla tematica trattata. Inoltre, anche se si decide di non prendere la parola, si viene comunque invogliati a rimanere nella disposizione precedente, in maniera da favorire la partecipazione anche di chi si limita solo ad ascoltare. Ruolo fondamentale viene assunto dal cosiddetto ‘conduttore’ del Circle time, l’insegnante o chi per esso, che non deve esprimere giudizi sul contenuto degli interventi, ma che ha il compito di far rispettare l’ordine degli stessi e di alimentare il dibattito, facendo in modo, al contempo, di non far allontanare la discussione dal suo tema centrale. E’ ciò che abbiamo sperimentato noi studenti della 4S1 con la Docente di Storia, in occasione della “Giornata della memoria”. In una prima fase la nostra Professoressa ha affrontato la tematica della Shoah con una lezione frontale e, alla fine dell’ora, ha invitato tutti gli studenti ad approfondire a casa l’argomento trattato, in modo da riprenderlo in occasione dell’assemblea di classe di due ore che la nostra Dirigente ha voluto per tutti gli indirizzi del Telesi@, con l’intento di farci riflettere e di confrontarci su quello che era accaduto durante il Secondo Conflitto Mondiale. Nella seconda fase, il giorno dell’assemblea, su richiesta della Docente abbiamo spostato i banchi, ci siamo posizionati con le sedie in cerchio insieme a lei e, dopo averci fatto provare grande sorpresa e curiosità per l’insolita disposizione, la nostra insegnante ci ha invitato ad esprimerci sulla Shoah uno alla volta, rispettando l’ordine di prenotazione per alzata di mano. Abbiamo parlato del significato dell’Olocausto, dei sei milioni di Ebrei che vennero sterminati dal folle progetto di atroce disumanità di Adolf Hitler, del rapporto tra gli Ebrei e gli altri prigionieri nei campi di concentramento, del rapporto tra gli Ebrei e gli Italiani, delle leggi razziali in Germania e in Italia, degli esperimenti compiuti da Mengele ad Auschwitz, del revisionismo che tenta di negare l’Olocausto e della Legge 20 luglio 2000 n. 211,che istituisce “il ‘Giorno della Memoria’ in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”. Prima di questa normativa, infatti, sussisteva un grande pericolo, quello che le tracce di un passato troppo opprimente da ricordare si dissolvessero piano, celate da un buio denso e penetrante che tentava di trascinare nell’ombra tutto l’odio, la sofferenza, la tristezza e l’angoscia che avevano lasciato cicatrici invisibili su un’umanità profondamente segnata. Ma d’un tratto, grazie alla famosa legge, nella spaventosa oscurità si è accesa una candela, che ha rischiarato con luce prepotente il paesaggio desolato ed ha fatto balenare davanti agli occhi la disarmante consapevolezza degli orrori commessi in un trascorso non lontano, che, anche se dolorosissimo da rievocare,non avrebbe più dovuto essere dimenticato. Ed è proprio con questo spirito che il 27 gennaio 2017, esattamente 72 anni dopo l’apertura dei cancelli di Auschwitz, noi ragazzi del Telesi@ l’abbiamo voluto ricordare.
Continuando a confrontarci su questa tematica, personalmente ho parlato di un libro che ho letto recentemente, intitolato “Io non mi chiamo Miriam”. Esso narra della vicenda di una ragazza Rom di nome Malika che, da adolescente, era stata deportata nel campo di concentramento di Auschwitz insieme a suo fratello Didi e a sua cugina Anuscha, i quali erano entrambi stati uccisi, il primo per gli esperimenti del Dottor Mengele, la seconda perché aveva deciso di non piegarsi alla volontà dei nazisti. Rimasta sola, la giovane era stata poi trasferita da Auschwitz al campo di concentramento femminile di Ravensbrück, ma durante il viaggio era successo qualcosa che avrebbe cambiato completamente il corso della sua esistenza. Dopo aver espresso a voce alta il mio compiacimento nel riscontrare da parte di tutti i partecipanti alla discussione un sincero interesse e un grande coinvolgimento emotivo, la Docente ha affidato a me il compito di condurre il Circle time. Sorpresa ma entusiasta, ho accettato il ruolo ed abbiamo continuato il dibattito.
Sono stati letti una serie di documenti che testimoniavano, nonostante il regime fascista, la grande umanità dimostrata dal nostro popolo nel proteggere e nel nascondere gli Ebrei che avrebbero dovuto essere deportati. Per concludere, è stata affrontata un’altra importante questione portata avanti dal famoso scrittore Elie Wiesel, secondo il quale non si può scrivere un romanzo su un campo di concentramento, poiché “o non si tratta di un romanzo o non si parla di un campo di concentramento”. Su questo punto, i miei compagni hanno espresso tutti il medesimo parere, che è risultato poi concorde anche con il punto di vista dell’autrice di “Io non mi chiamo Miriam”. Infatti, mentre da un lato raccontare le esperienze dei deportati non potrà mai farci provare l’equivalente delle emozioni sentite da coloro che le hanno vissute direttamente (anche perché questo significherebbe chiedere alla letteratura qualcosa che va di gran lunga al di là di quello che le compete), dall’altro lato i romanzi hanno la capacità di riuscire a coinvolgere anche i lettori più “restii”, permettendo a chiunque di potersi fermare a riflettere con maggiore consapevolezza, anche nel caso in cui la descrizione della realtà non sia tanto cruenta quanto lo è l’avvenimento di cui si parla. Con quest’ultima argomentazione si è concluso il nostro primo ‘Circle Time’, il quale ci ha dato indubbiamente la possibilità di poter ampliare i nostri orizzonti dal punto di vista della socializzazione delle opinioni e delle conoscenze. Ma questa esperienza non si è limitata solo a ciò: ci ha infatti garantito anche l’opportunità di soffermarci a pensare su una delle pagine più nere della nostra Storia in una maniera mai sperimentata prima, poiché, attraverso una partecipazione più attiva e diretta, abbiamo potuto vivere con maggiore coinvolgimento la sofferenza di tutti i perseguitati del passato, e ci siamo resi conto che solo attraverso la consapevolezza di ciò che è accaduto potremo alimentare il ricordo dell’orrore, facendo sì che esso ci funga da sprone per fare in modo che queste atrocità non accadano mai più.
Il Circle time ci ha talmente soddisfatti che vorremmo ripeterlo con altre tematiche, inoltre abbiamo deciso di applicarlo anche durante le prossime assemblee di classe, poiché esso rappresenta una delle nuove metodologie fondamentali per poter garantire lo sviluppo di nuovi tipi di apprendimento e di confronto e poiché, grazie anche ad esso, la scuola si sta muovendo non più solo in direzione del “sapere” e del “saper fare” ma anche, e soprattutto, verso il “saper essere”.
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