di Sara Cutillo, 3ª Liceo Linguistico –
Giovanni Casertano ripercorre la mappa del significato platonico dell’idea di ἀνδρεία, la cui definizione non ha solo una valenza logica ma riguarda anche il campo etico e politico. Il coraggio è un aspetto della virtù, insieme alla temperanza, alla giustizia e all’intelligenza. Nelle “Leggi” il termine virtù, usato per indicare l’εἶδος del coraggio e l’εἶδος dell’ intelligenza, dà luogo ad un’interessante considerazione: il coraggio ha attinenza con la paura e ad esso partecipano, ad esempio, i caratteri dei bambini piccolissimi; l’intelligenza invece è legata al logos, perciò «… senza la ragione, infatti, e anche solo per natura, l’anima può diventare coraggiosa, ma senza la ragione, d’altra parte, l’anima non divenne, non è, e non diventerà mai in futuro, assennata e dotata di intelletto, poiché l’intelligenza è diversa dal coraggio».
Nella “Repubblica” la riflessione platonica mostra la distanza dai valori tradizionali dell’ἀνδρεία. Il coraggio non è quello che si mostra in battaglia ma è – afferma Socrate – una forma di salvaguardia. In questo luogo del dialogo Platone fa ricorso ad una mossa scenica. Di fronte a tale affermazione, infatti, Glaucone risponde: «Non ho ben capito ciò che hai detto. Ripetilo». Glaucone, il fratello di Platone, sottolinea Casertano, è un coraggioso nel senso tradizionale del termine e fatica a comprendere l’importanza del concetto di coraggio come σωτηρία, salvaguardia della buona opinione, ossia capacità di salvaguardare il proprio punto di vista anche se ci si trova nella sofferenza, nel piacere o nella paura. Per rendere chiara la novità concettuale, Socrate fa ricorso ad un’immagine efficace. Al fine di rendere vivido il colore finale, i tintori tinteggiano la lana di bianco e predispongono accuratamente il tessuto prima di colorarlo con il rosso porpora; egualmente, l’educazione alla musica e alla ginnastica predispone l’animo dei giovani in modo che la loro tintura definitiva non sia slavata da detersivi tanto efficaci a cancellare come il piacere, il dolore, la paura e il desiderio. Il coraggio è dunque δύναμις, capacità di fare la guardia all’interno e all’esterno della città e dell’uomo, una virtù attiva e non una dote guerresca.
Ma se ogni idea deve essere esaminata a partire dal suo opposto, il coraggio va messo in relazione con la paura, la paura della vergogna (αἰσχύνη) di fronte agli amici, oppure il timore che altri, nelle stesse condizioni, mostrino minore viltà.
Le”Leggi”, anticipando Baruch Spinoza, richiamano un concetto già espresso dal Frammento 59 del sofista Antifonte: «Colui che non ha desiderato le cose turpi non è temperato, perché non ha avuto modo di sapere da che cosa astenersi». Significativamente, nel dialogo, l’Ateniese chiede a Clinia se c’è un dio che consegni agli uomini una pozione per suscitare timore, in modo che ciascun uomo, ad ogni sorso, veda aumentare la sua paura per tutto ciò che gli può e gli potrà accadere, e il più coraggioso degli uomini possa giungere a temere di tutto per poi ridiventare se stesso. È evidente che tale pozione non esiste, esiste invece il filtro della temerarietà ossia il vino, che, dando totale libertà di parola e di azione, costituisce un ottimo strumento per sondare l’animo e rende perciò all’uomo possibile l’esercizio contrario nei confronti dell’impudenza e dell’insolenza. Bisogna, dunque, «imbattendosi nell’impudenza ed esercitandosi in essa, diventare capaci di opporsi ad essa». I saggi sono temperanti, in ultima analisi, per intemperanza, hanno desideri di certi piaceri e per questo si astengono da altri.
Nel “Fedone” Socrate dialoga con gli amici intorno al tema della morte e lascia emergere la dimensione più propria del coraggio. Per chi sta per morire è conveniente indagare con discorsi filosofici e raccontare miti sul viaggio imminente (le illusioni di Foscolo). Il coraggio spinge a rendere ragione, a dare conto di un evento su cui non si sa nulla di preciso. Anche nel corso di tale «dare ragione» c’è qualcosa che sfugge all’indagine, è come essere dei guardiani che non riescono ad allontanarsi dal proprio posto di guardia. Ed è questo il senso metaforico del «morire a», «dell’allontanarsi da», ossia dare all’anima la libertà dell’aver cura della morte. In questo senso i filosofi desiderano la morte ma non è lecito procurarla perché gli dei si prendono cura degli uomini e «noi siamo, dice Socrate, un po’ come in loro possesso». Poi aggiunge: «Mi consola la speranza che al di là della morte, come da tempo si afferma, qualcosa ci sia e assai migliore per i buoni che per i malvagi». Platone parla di speranza e non di certezza, sottolinea Casertano, perché ci potrebbe essere la conoscenza del morire ma non della morte, che resta confinata nella “pittura d’ombra”, ossia nella pura apparenza delle narrazioni mitiche, nei precetti religiosi…
L’adagio del Concerto No 21 di Mozart, conclude Casertano, rende trasparente l’attimo prima della morte, una condizione d’animo di tristezza per l’avvicinarsi di un evento inevitabile che però non annulla il senso degli eventi passati perché la maniera in cui si è vissuti e ciò che si è stati rimane uguale per sempre.