di Giulia Landolfi 5° S1 –
Non saprei dire cosa mi abbia suggestionato di più, se la musica di Sascha Ring , i versi di Leopardi, la regia di Mario Martone o il volto e la voce di Elio Germano.
È capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di essere colti da un improvviso ed inspiegabile senso di piacevole commozione che inebria la mente e si manifesta in modo così profondo da condizionare l’intero corso di una giornata.
È capitato a tutti di essere sorpresi e nello stesso tempo affascinati da qualcosa, che appare così grandiosa da sentire la necessità di fermarsi , riprendere fiato e ammirarla meglio. E non importa se ad una seconda visione quel qualcosa apparirà meno sublime, perché è quel primo memorabile incontro che ricorderemo, sedotti inesplicabilmente nell’animo e nel corpo.
Non deve trattarsi necessariamente di un’opera d’arte come il Giudizio Universale di Michelangelo, può essere anche un libro comprato per caso, la stradina sconosciuta di una città, che dietro un angolo qualsiasi sopraggiunge nuova, inattingibile nella sua bellezza, estranea e, proprio per questo, avvincente e dominatrice. È questo il modo di sentire il bello, un’esperienza sospesa tra tensione intellettuale e adesione dei sensi, efficace perché inesauribile, come suggerisce Sergio Givone nella “Prima lezione di estetica“.
Per Leopardi il bello è una scelta coraggiosa, è il punto d’arrivo di un’educazione sentimentale che lo porta a dare finalmente voce alla sua sensibilità raffinata, una voce poetica che attraversa con grazia la natura e gli altri uomini per ricomporne la condizione universale.
La macchina da presa di Mario Martone si è avvicinata al “giovane favoloso” non solo per narrarne la storia travagliata o per mettere in scena il mito poetico e le interpretazioni letterarie più famose. Il regista ha rischiarato i luoghi e le figure con una luce tangibile da risultare quasi provocatoria nella sua materialità, a voler suggerire che il giovane poeta di Recanati non è un’immagine irreale dai contorni sfocati ma un uomo in carne ed ossa che ama la vita e ne è così profondamente affascinato che desidera abbandonare la sua città natale, una prigione fisica e intellettuale, stretta come una gabbia. I versi de L’infinito, così smisuratamente profondi e intimi, chiamano la forza dell’immaginazione a compensare le carenze della ragione e il tempo e lo spazio si confondono in un’ emozione dolce e piacevole.
Le parole di Elio Germano assumono man mano una cadenza nuova, virile e coraggiosa e la macchina da presa allarga l’orizzonte all’Italia, alle sue città con le loro anime vecchie e nuove, liberali e conservatrici, generose e bigotte, ruffiane e oscene. Il poeta attraversa le piazze, si veste alla moda, dorme nelle anticamere del potere e prova ad essere felice con le forze della ragione e del sentimento, ma invano. Egli diviene un Sisifo amareggiato, che guarda alla natura indifferente e matrigna, all’impotenza, persino morale, dell’uomo di fronte al colera, alla superficialità dell’animo degli altri di fronte alle sue richieste d’amore.
È dalla natura, quella matrigna che ha negato al genere umano ogni possibilità di essere felice, che nasce il sentimento leopardiano di angoscia che abbiamo chiamato pessimismo, una visione filosofica che fa i conti con le illusioni, schopenhauerianamente le demistifica con sospetto, le riduce a velo di Maya. Ma mentre fuori tutto è lava infuocata e deserto, il canto riprende e l’immagine della ginestra illumina la sala.
Quando le luci del cinema “Modernissimo” si sono riaccese ho pensato ai versi di Albert Camus : «Nel bel mezzo dell’inverno ho infine imparato che vi era in me un’invincibile estate».